Che genere di musica scrivo.
Curiosità incosciente
Non sono mai stato davvero interessato all’esecuzione musicale, nemmeno nei lunghi anni in cui il pianoforte ha, molto tardivamente (tra i 18 e i 24 anni), preso buona parte della mia giornata. Non che io non sappia quanta creatività ci possa essere nell’interpretazione musicale, ma semplicemente quel tipo di creatività non mi appartiene. La mia vocazione è quella di sporcarmi le mani per trovare “il mio suono”.
Nel 1961 o ’62, quando avevo 5 o 6 anni, regalarono a mio padre uno dei primi organi elettrici. Tutta la mia famiglia, pressoché priva di ascendenze musicali, giocava talvolta a suonacchiare qualche canzone, seguendo una guida numerica su uno pseudo-spartito. Una manopola, se situata in una certa posizione, permetteva di ottenere accordi maggiori e minori premendo un solo tasto della parte sinistra della tastiera, consentendo così di armonizzare le melodie. Io non ero affatto attratto dall’esecuzione delle canzoni, che trovavo gesto stupido e ripetitivo.
Giocavo con la manopola, la giravo e rigiravo, perché capivo che, mettendola in un certo modo, ottenevo un suono semplice e, nell’altro, un suono complesso (sono parole di oggi e non di allora, ovviamente) e con la mano destra cercavo di ricostruire nella parte acuta la somma di suoni equivalenti al risultato magico della manopola. Evidentemente dovevo “fare mio” il suono, cercando di smontarlo, di rimontarlo, di penetrare il mistero degli accordi e non di riprodurre qualcosa di già confezionato. I miei genitori cercarono allora di farmi studiare musica, ma il risultato fu pessimo: dopo poche lezioni, mi rifiutai di continuare, perché trovavo tutto freddo e incomprensibile. Preferivo giocare con la manopola.
Si trattava quindi di un’attitudine “al fare più che all’apprendere”, che è poi sempre rimasta in me, seppur, spero, nella forma più matura dell’ “apprender attraverso il fare”.
Successivamente, tra gli 9 e i 12 anni, tale desiderio di azione creativa cercò altrove il suo oggetto: prima scrissi un intero “romanzo” (così lo chiamavo io, forse era solo un lungo racconto), poi mi rivolsi alla pittura, dipingendo molte tele.
Il “romanzo” narrava le vicissitudini dell’unico superstite di una sciagura aerea in pieno deserto, che intraprendeva un cammino senza certezze, alla ricerca di una via d’uscita: pensieri, sogni, eventi piccoli e grandi si intrecciavano, terminando con il profilarsi all’orizzonte dei contorni di una città, ma senza svelare se si trattasse di realtà o solo di un miraggio.
In seguito ho completamente dimenticato quel “romanzo”, peraltro perduto molto tempo fa, ma quando, esattamente vent’anni dopo, nel 1984, mi proposero una commissione per un Oratorio, dapprima rifiutai, trovandola una forma a me del tutto lontana, poi, improvvisamente, cambiai idea per essermi imbattuto, proprio in quei giorni, in un episodio del I libro dei Re, quello in cui il profeta Elia, impaurito e sfiduciato, si rifugia nel deserto e affronta un cammino di quaranta giorni al termine del quale il Signore gli rivela non nella forma potente e trionfale che in fondo egli desiderava, ma nella suggestione impercettibile e incerta di un sottile soffio di brezza.
Le analogie sono evidenti: non tanto nella comune ambientazione del deserto, quanto nella centralità di idea di viaggio, di un percorso da compiere con forte motivazione quand’anche la meta sia incerta.
Molti altri miei pezzi si sono poi basati sul tema del viaggio: l’azione teatrale “Attraverso” (1990), divenuta in seconda versione “El canto quiere ser luz” (1994), un percorso dall’oscurità alla luce passando attraverso le simbologie di vari colori (idea ripresa nel 2001 in “Le réveil de mon âme” per dodici voci su versi di Baudelaire). Ma ad esempio analogo tema si ritrova nel melodramma “La partenza”, sull’omonimo, brevissimo racconto di Kafka.
Evidentemente c’è sempre stata in me una necessità di essere “proteso verso” che, oltre a condurmi alla scelta di ben precisi testi ed archi narrativi, si traduce anche nel tentativo di attribuire alla musica stessa una forte direzionalità formale, figurale e armonica.
Un altro sintomo della presenza in me, quasi in forma di modello immaginativo archetipico, del percorso oscurità- luce, si riscontra in un episodio del 1969, quando un secondo più perfezionato organo elettrico (girato sempre casualmente per casa) mi aveva ormai condotto non più solo a giocare con le manopole, ma a costruire brani musicali interamente miei, orientando così definitamente verso la musica le mie “voglie” creative, pur senza vincere, ancora per qualche mese, la ritrosia verso regolati studi.
Quell’anno mi venne proposto da un gruppo teatrale studentesco in cui militava il mio diciottenne fratello, di comporre le musiche di scena per il secondo atto del “Saul” di Alfieri, ben 45 minuti di musica che suonavano “in diretta”; l’inizio poetico parla di un’alba bella, ma sanguinosa, a causa degli eventi destinati ad accadere qual giorno e la mia reazione inventiva a tale immagine fu du iniziare a sipario chiuso con le braccia appoggiate sulla tastiera dell’organo (si chiamava cluster, ma io non lo sapevo); via via, poi sottraevo suoni fino ad arrivare ad un accordo di la maggiore da cui tutto iniziava davvero. Il percorso dall’oscurità all’alba, ma anche la minaccia in esso contenuta, erano così raffigurati; ma se penso a “Memoriam” (2002), il mio più recente pezzo orchestrale, o alla stessa “Sinfonia”, che analizzerò nel successivo saggio, l’inizio non è poi tanto dissimile.
In ognuno di noi esistono alcuni archetipi immaginativi, che inseguiamo a nostro modo per tutta la vita, cercando di modellarli e di esprimerli.
Come ho detto, tra i 9 e i 12 anni, la passione per la pittura sostituì l’attrazione per la musica. In seguito durante l’adolescenza, essa semmai si trasformò in passione per la fotografia e in un uso assiduo di una cinepresa 8 mm. (i cui filmati poi musicavo), ma non costituì più il mio modo primario di espressione.
Ho sempre riflettuto sul fatto che in me le attrazioni per la pittura e per la musica si siano esattamente alternate e susseguite, quasi non potessero convivere e ho concluso che la musica è stata inconsciamente concepita coma una sublimazione del rapporto con l’immagine. Non a caso, infatti, il linguaggio del comporre utilizza spesso termini mediati dal mondo della visione (forma, immagine, figura, gesto, timbro chiaro o scuro etc.) conferendo però loro un significato simbolico e metaforico che mi attira maggiormente in quanto più vicino all’espressione delle energie profonde.
Ma un pittore forse direbbe il contrario ed io ero semplicemente più portato alla musica.
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